domenica 2 giugno 2019

Comunicazione e linguaggio

Comunicazione e linguaggio

La comunicazione è uno degli elementi fondamentali della vita degli uomini. Il termine deriva dal latino e significa condivisione. Comunicare significa stabilire rapporti tra persone e ricevere informazioni tramite messaggi codificati. Uno dei paradossi della nostra società consiste nel fatto che, nonostante la tecnologia consenta ampie possibilità di comunicazione i rapporti interpersonali si vanno impoverendo. Una comunicazione efficace è la base che consente di sviluppare qualsiasi attività sociale, anche l’attività di lavoro. Padroneggiare le tecniche e i comportamenti della comunicazione significa farsi conoscere e conoscere chi ci sta di fronte, significa adeguare il proprio e l’altrui comportamento in funzione dell’obiettivo. Significa mettere nel nostro mondo, in comune con gli altri, qualcosa del nostro essere. 

Il processo di comunicazione. Gli individui comunicano fatti, percezioni, sensazioni, opinioni ed altro, con un semplice messaggio. Si comunica non solo per mezzo della parola scritta o parlata, ma anche tramite il silenzio, il movimento, l’immobilità, i gesti, il tono della voce; anche le cose possono essere utilizzate nel processo di comunicazione. 

Il processo di comunicazione richiede: la fonte che emette il messaggio, il messaggio e il significato che il ricevente attribuisce al messaggio. 

Il messaggio e il codice
Il messaggio è costituito da un insieme di informazioni di base (concetti, sentimenti, sensazioni, che strutturate ed espresse con l’uso di un codice, formano i contenuti della comunicazione. Il codice può essere definito come le modalità di espressione del messaggio. Un codice è sistema di segni multipli (parole, suoni, immagini) che permettono di veicolare un contenuto, cioè dei significati risultanti dal sistema di rappresentazione dell’emittente; il ricevente, mediante decodifica dei significanti (i segni multipli) ricostruirà nella sua mente una rappresentazione tanto più vicina a quella dell’emittente quanto più i processi di codifica e decodifica saranno stati equivalenti e completi. La condizione essenziale che caratterizza l’utilità del codice è quindi che sia noto all’emittente e al ricevente. Tanto più sofisticata è la codifica, tanta più lunga sarà la decodifica (interpretazione del messaggio). 

Il linguaggio
È strumento di comunicazione e quindi espressione delle esigenze della vita sociale, condizione necessaria della convivenza umana. 

Origini del linguaggio
È possibile presumere che gli uomini abbiano sviluppato i loro linguaggi allo scopo di tenere insieme il gruppo, per difendersi dai nemici, per educare i giovani alla vita; alcuni studiosi ritengono che il linguaggio sia il prodotto dell’imitazione dei gridi o dei suoni naturali; altri sostengono che il linguaggio sia un fatto prettamente innato nell’uomo. 

Dibattito sulla priorità tra linguaggio e struttura sociale 
Secondo i linguisti E. Sapir e B. Whorf la lingua modella l’azione umana. Quando nasce il linguaggio l’uomo da ordine alla realtà, trasformandola da caos a struttura. Noi facciamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti e diamo dei significati soprattutto perché partecipiamo ad un accordo (implicito e non dichiarato) di organizzarla in questo modo, un accordo codificato negli schemi della nostra lingua. 
Secondo F. De Saussure linguaggio e struttura sociale si influenzano vicendevolmente. 

La crisi del linguaggio
Alcuni sociologi sostengono che oggi si è di fronte alla crisi del linguaggio, ad un “retrocedere” delle parole. La realtà cosi come la comprende l’uomo oggi sfugge al linguaggio: per gli scienziati è uno strumento troppo rozzo; per l’uomo della strada è un parlare troppo astratto. Oggi si richiede indubbiamente una riforma radicale del linguaggio. Questo è costretto a divenire più agile, e più adatto alle condizioni della vita moderna, si richiede un nuovo linguaggio più diretto, più aderente alle cose, più efficace, economico, flessibile. È stato detto a proposito della “decadenza della parola” e che gli uomini stanno entrando nella civiltà audiovisiva. 
Il linguaggio parlato retrocede perché da un lato è rimpiazzato dall’azione, dall’altro dal linguaggio formalizzato, cioè dal segno. Ci si avvia verso un’organizzazione visuale dell’intera esistenza. 
Oggi alle persone di una certa età è richiesto nella vita quotidiana una specie di visual thinking (pensiero visivo) che costa loro molta fatica raggiungere, e spesso è inaccessibile. 

Lo studio della comunicazione
Considerando le barriere che ostacolano la comunicazione tra le persone, specialmente quelle determinate dall’origine sociale, dall’esperienza, e dagli scopi perseguiti, nessuno è uno strumento neutrale nel comunicare: l’attitudine a ricevere le comunicazioni è legata alle motivazioni personali. Generalmente si è portati a credere che il dialogo avvenga essenzialmente a un livello razionale ed intellettuale. Gli studi sulla comunicazione attestano che non è così… Esiste invece un’onda portante, fondamentale per tutta la comunicazione. Quest’onda è costituita dalla corrente delle attitudini da noi realmente impegnate di fronte agli altri, e che a sua volta, è influenzata dalle attitudini di questi. 
Esempi di distorsione del processo comunicativo. 
- la catena aberrante comunicativa 
- l’informazione incompleta 
- l’equivoco 

I diversi atteggiamenti nella comunicazione
Il soggetto che vuole comunicare deve tenere conto che ciò che appare vitale per lui può essere assolutamente superfluo, futile, per il suo interlocutore. 
Il valore delle parole. La cattiva comunicazione può derivare dalla difficoltà di dire e di comprendere. Le parole possono avere un valore differente secondo le origini, le esperienze, gli umori degli individui. Noi diamo alle parole un’intensità, una tonalità, un’intenzionalità e un valore particolare ma non è sicuro che esse siano esattamente recepite dagli altri. 

La componente emotiva
Ciascuna persona pur inviando un messaggio razionale, trasmette una serie di tonalità emotive, che rendono ogni momento comunicativo differente dagli altri. Le emozioni sono determinate da molteplici fattori: esperienza, ambiente, la motivazione a comunicare 

L’interruzione
anche se fatta senza averne coscienza, è uno dei più frequenti e distruttivi modi di comunicare. Spesso accade che non si ascolta chi parla, ma si pensa a ciò che si dirà. 
Ciascun uomo è solito formulare un giudizio senza preoccuparsi si istaurare un rapporto di comunicazione, cioè il pregiudizio.

Lo schema della comunicazione

Roman Jakobson (1896–1982), linguista statunitense di origine russa, ha descritto il processo comunicativo indicandone sei elementi essenziali, ricorrenti in qualsiasi forma di comunicazione: mittente, o emittente, destinatario, o ricevente, messaggio, referente o contesto, canale e codice.

a. EMITTENTE è colui che dà origine all’atto comunicativo, cioè trasmette il messaggio

b. DESTINATARIO è colui al quale l’atto comunicativo è destinato, cioè riceve il messaggio
Un atto comunicativo potrà quindi rappresentarsi in questo modo:
l’atto di comunicazione, per essere tale, deve concludersi con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, pena la nullità dello stesso; se spedisco una lettera e questa non arriva al destinatario l’atto comunicativo non si è compiuto.
Ci sono alcuni casi particolari di rapporto emittente-destinatario:
– emittente e destinatario coincidono: in genere emittente e ricevente sono diversi; c’è, però, un caso in cui essi coincidono: quando l’io riflette, elabora, sogna, e quindi si rivolge a sé stesso:
– l’emittente diventa destinatario e il destinatario diventa emittente: questo continuo cambio di ruoli è caratteristico dei dialoghi.
– l’emittente si rivolge a più destinatari: pensiamo a una conferenza o a quando si scrive un libro. 

c. MESSAGGIO è l’insieme di informazioni inviate dall’emittente al destinatario
Se consideriamo emittente e destinatario come i due poli delle comunicazioni, l’insieme di informazioni che passano tra i due poli, ossia ciò che viene comunicato, si chiama messaggio.

d. CODICE è l’insieme di segni (e le regole per combinarli insieme) usati per comunicare Perché il messaggio possa venire compreso deve venire formulato mediante un codice (verbale o non verbale che sia) conosciuto sia dall’emittente sia dal destinatario.
Formulare un messaggio in un codice è una operazione di CODIFICAZIONE; comprenderlo, ossia interpretarlo, è una operazione di DECODIFICAZIONE. Trasportare un messaggio da un co- dice all’altro è una operazione di TRANSCODIFICAZIONE.

e. CANALE (CONTATTO) è il mezzo fisico usato per la trasmissione del segno dall’emittente al destinatario
Il messaggio codificato dall’emittente deve poter arrivare al destinatario, altrimenti la situazione comunicativa non si attua. Il canale rappresenta il mezzo mediante il quale il messaggio partito dall’emittente arriva al destinatario (se non utilizziamo la posta-canale, la lettera non arriva al destinatario e quindi è come se non l’avessimo mai scritta, ai fini comunicativi).

f. CONTESTO è il quadro d’insieme delle informazioni e conoscenze (linguistiche, storiche, culturali e situazionali) che, essendo comuni sia al mittente sia al destinatario, consentono l’esatta comprensione del messaggio.
Pur avendo decodificato correttamente il messaggio, il gemello sbagliato non riesce a capire il senso dello stesso, non riesce a farlo perché́ gli manca il contesto in cui inserire quel messaggio. Più in generale la comprensione dei messaggi rinvia a tre diverse tipologie di contesti:
– CONTESTO SITUAZIONALE = ambiente fisico, insieme di condizioni in cui avviene la comunicazione: la frase “Occorre un buon taglio” significa cose diverse se espressa dal barbiere, dal sarto, o trovandosi in una situazione difficile.
– CONTESTO LINGUISTICO = insieme di informazioni forniteci dagli altri elementi linguistici: la frase “50.000 giovani impazziti.” induce ad un senso di smarrimento se non fosse chiarito il senso con il successivo “Ieri sera a Milano il concerto di Vasco Rossi”)
– CONTESTO CULTURALE = come conoscenze di fatti, persone, idee, oggetti cui si riferisce
la frase “La Caritas accusa il Governo: sugli immigrati ha fallito” per essere pienamente compre- sa presuppone delle conoscenze relative al che cos’è la Caritas, di quale Governo si sta parlando, quali norme sono state emanate dal governo con riferimento agli immigrati
Oltre a quelli visti vi sono altri due elementi (non definiti da Jakobson) che sono in qualche modo collegati alle situazioni comunicative:

g. RUMORE = tutto ciò che disturba la comunicazione
Qualsiasi sia la natura del disturbo:
• legato all’emittente (per esempio, disturbi di pronuncia ad esempio) • legato al canale (segnale telefonico disturbato)
• legato al contesto (mancanza delle informazioni necessari)
h. RIDONDANZA = ripetizione della stessa informazione, magari usando codici diversi

Se per chiamare una persona oltre al messaggio linguistico “vieni!” uso, contemporaneamente an- che altri tipi di codice, ad esempio un cenno della mano e un sorriso, io moltiplico la stessa informazione e quindi si può parlare di ridondanza. La ridondanza, nelle intenzioni, si attua per facilitare la comunicazione.

Tipi di segni per comunicare
La comunicazione è innata in ogni essere vivente ed è un’esigenza naturale.
Esistono vari modi per comunicare ed ognuno di essi utilizza uno o più dei cinque sensi che l’uomo possiede. Avremo così comunicazioni uditive, visive, tattili, ecc …
-         Segno acustico: il clacson di un’automobile
-         Segno visivo: il gesto di saluto da parte di un amico
-         Segno tattile: un abbraccio
-         Segno olfattivo: un profumo
-         Segno gustativo: il sapore del cibo

Nel seguente esempio possiamo notare come un semplice messaggio possa essere inviato seguendo modalità differenti. Il vigile urbano, l’emittente, ed un automobilista, il ricevente; l’ordine di fermarsi è il messaggio. Quest’ultimo può essere manifestato in vari modi: dal fischietto (segnale acustico) alla parola ALT! (segno linguistico), dalla posizione del braccio alzata (gestuale), alla paletta (grafico) e al semaforo (luminoso).

Significante e significato
Il significante è il nesso materiale percepibile dai sensi che ci suscita il significato, un concetto astratto interpretabile e comprensibile da parte del ricevente.
Ad esempio, un segno di saluto è scomponibile in due parti: il significante, la mano (concreto) e il significato, il saluto (astratto). Il segno, infatti, è l’associazione di un significate con il relativo significato. L’atto comunicativo, in sintesi, è un segno.

Segni naturali e segni artificiali
I segni convenzionali, scaturiti da una convenzione, sono quelli artificiali mentre, i segni naturali, non sono soggetti a regole o accordi.
Esempi di segni naturali sono il rossore di una ragazza, delle orme sulla sabbia. Questi, per essere compresi o interpretati, necessitano di esperienza.
Tra questi ultimi è possibile eseguire un’ulteriore divisione:
-       Chi osserva le tracce, parte dalla constatazione di un rapporto causa-effetto tra oggetto ed evento, non immediato e non attuale, asincrono, come le orme sulla sabbia.
-       Chi rileva dei sintomi, stabilisce una relazione tra un fenomeno osservabile e un evento immediato, il sincrono, come le macchie del morbillo o una nuvola di fumo.
-       Chi raccoglie indizi, osserva una relazione oggetto-evento e partorisce una congettura (deduzione), come il fazzoletto lasciato dall’assassino sul luogo del reato.

·          Dai segni artificiali ai linguaggi
Il linguaggio non è altro che un sistema di segni artificiali finalizzato alla comunicazione con gli altri; ovviamente, esistono tanti linguaggi e sono tutti organizzati secondo precise norme e regole. Ad esempio, la comunicazione tra sordomuti è costituita da gesti comprensibili esclusivamente alle persone che conoscono le convenzioni di tale linguaggio.
I linguaggi gestuali sono immediati e pratici, ma hanno bisogno di un’interpretazione, che può essere soggettiva con il variare del ricevente, mentre quelli verbali o scritti, necessitano di una maggiore attenzione e cultura nella loro compilazione, nel contempo, il messaggio inviato risulta più chiaro e recettibile. I vari linguaggi si classificano in:
-         Linguaggi verbali, che utilizzano le parole: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”
-         Linguaggi non verbali, che non utilizzano le parole: un cartello stradale, un’icona, una foto, un gesto.         Linguaggi misti: linguaggi, che adottano sia segni visivi che parole: un cartello stradale con la scritta “USCITA à”

I linguaggi verbali sono, come dice la parola stessa, strutturati sulle parole: una parola non è altro che un segno e, come ogni altro segno, ha un significante e un significato.

I linguaggi non verbali, invece, vengono utilizzati sia dagli uomini che dagli animali e sono quelli visivi, iconici, gestuali, acustici, sonori, olfattivi, gustativi e tattili. I segni non verbali, però, devono essere tradotti attraverso un linguaggio verbale per poterli rendere meglio comprensibili.
I linguaggi misti sono una miscela di segni verbali e non verbali come ad esempio, un cartello pubblicitario, un segnale stradale. Inoltre, i linguaggi speciali come il morse o il braille sono considerati come linguaggi misti perché rappresentano un collegamento diretto segno-parola.

Codice
Il codice è l’insieme dei segnali intenzionali, organizzati secondo alcune regole precise, finalizzate alla produzione di messaggi; infatti, il codice è indispensabile per comprendere i segni, la chiave della comunicazione.
Per una comunicazione efficiente, è fondamentale conoscere il codice utilizzato, sia per la codificazione, cioè la creazione di un messaggio da parte dell’emittente, che per la decodificazione, ossia interpretazione del messaggio da parte del ricevente.

·          Le caratteristiche del codice
Intenzionalità, convenzionalità. Il codice è il mezzo che evidenzia la volontà dell’emittente, infatti, per farsi ben comprendere esso utilizza un codice che rispetta una determinata convenzione. Per la corretta riuscita di una comunicazione, vi è la necessità dell'intenzionalità del codice ossia il legame intrinseco che c’è fra il significante e il significato; il rispetto di regole e grammatiche è necessario per la chiarezza del messaggio stesso.


Comunichiamo con i segni: le parole, le espressioni facciali, le immagini sui cartelloni pubblicitari, i segnali stradali, alcuni suoni o colori sono segni.
Un segno, per definizione, è una entità bifacciale, composta da significato e da significante.
In altre parole, il significato è il concetto espresso, il significante è il supporto materiale che lo esprime.
Prendiamo l'esempio di un segnale stradale, il divieto di accesso. Il significato è: "non si può passare per di qua". Il significante è un cerchio rosso con una banda bianca orizzontale che divide il disco rosso a metà. Le due cose insieme, sono un segno.
Abbiamo una icona quando il segno assomiglia al concetto rappresentato, ad esempio l'icona russa della Madonna con il Bambino. Il significante assomiglia effettivamente a una donna che tiene in braccio un infante.
Abbiamo un simbolo quando il significante utilizzato è frutto di una convenzione ma non assomiglia al concetto espresso nella realtà.
Abbiamo un indice quando il segno è naturale, non è frutto di convenzione e non assomiglia al concetto espresso che si intende rappresentare.

Il significato
Il significato è un concetto espresso mediante segni che possono essere grafici, verbali-orali, o mediante cenni e gesti. Il significato permette di capire o esprimere il senso, il valore o il contenuto del segno. Secondo il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, il segno linguistico è costituito dall'unione di un significato (un concetto, cioè la nozione mentale che abbiamo di un determinato oggetto) con un significante (cioè una forma sonora, o un'immagine uditiva).
In semantica, il significato è la nozione o immagine mentale generica che possediamo di un oggetto. È indicata graficamente o foneticamente dal significante e si riferisce all'albero reale al di fuori della sfera linguistica, detto referente.
Dello studio del significato si occupano la semiotica, la semantica e la filosofia. In semiotica, il significato è uno dei vertici del triangolo semiotico postulato da Charles Peirce, come mostrato nella figura accanto.
Per quanto riguarda la porzione di realtà indicata, si distingue in genere tra:
  • denotazione, ovvero ciò che una parola indica in quanto tale
  • riferimento, ovvero ciò che una parola indica in una frase determinata

Connotazione e denotazione
La denotazione è un termine della linguistica che distingue il significato principale di una parola, o enunciato, rispetto alla connotazione, ossia alla carica psicologica associata al termine. Nel caso di una parola singola, la denotazione è la prima definizione che daranno un dizionario o un'enciclopedia. 

Denotazione e connotazione sono termini che si riferiscono ai diversi modi di intendere il significato di una parola.Per denotazione intendiamo il rapporto tra la parola e l’ oggetto che vuole significare; la connotazione invece indica il significato nascosto (metaforico) di una parola che si riconduce spesso  ai sentimenti del poeta.

Se prendiamo come esempio la parola "deserto", può indicare un luogo geografico (denotazione) oppure una condizione umana (connotazione: deserto dell'anima = solitudine); in generale la   denotazione è tipica della prosa, mentre la connotazione è diffusa nella poesia.
Ogni parola ha un significante, un significato e un referente.
- il significante è il suono della parola o la sua grafia
- il significato è il senso che diamo a un simbolo grafico o a un suono      
- il referente è l’oggetto a cui diamo quel nome determinato
 Il significante cambia a seconda della lingua che si usa, mentre il referente è un concetto associato a quel suono.
Il significato è invece l'insieme di stati d'animo, di esperienze passate, di aspettative che ciascuno di noi associa al referente e quindi varia in modo soggettivo. Dal significato delle parole nasce la loro capacità di associarsi ad immagini diverse a seconda di chi le utilizza e di chi le ascolta; l'uso delle figure di significato è quindi personale e questo le rende suggestive, ma talvolta di difficile interpretazione.

La Pragmatica
La pragmatica è una disciplina della linguistica che si occupa dell'uso contestuale della lingua come azione reale e concreta. Non si occupa della lingua intesa come sistema di segni; al contrario, osserva come e per quali scopi la lingua viene utilizzata, individuandone la misura con cui soddisfa esigenze e scopi comunicativi. Più nello specifico, la pragmatica si occupa di come il contesto influisca sull'interpretazione dei significati. In questo caso, per "contesto" si intende "situazione", cioè l'insieme dei fattori extralinguistici (sociali, ambientali e psicologici) che influenzano gli atti linguistici.
La semantica ha per oggetto l’insieme di relazioni che sussistono tra espressioni linguistiche e mondo. È in virtù di queste relazioni che le espressioni linguistiche possiedono significato.
La pragmatica studia gli usi delle espressioni linguistiche in varie pratiche sociali, a cominciare dagli ordinari processi di conversazione e comunicazione.



Linguaggi non verbali
La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che comprende tutti gli aspetti di uno scambio comunicativo che non riguardano il livello puramente semantico del messaggio, ossia il significato letterale delle parole che compongono il messaggio stesso, ma che riguardano il linguaggio del corpo, ossia la comunicazione non parlata tra persone. Inoltre, importantissimi sono i tanti codici della cultura comune i quali ci aiutano a capire i vari messaggi che le parole, i toni e i movimenti del corpo, esprimono solo parzialmente.

Il linguaggio del corpo fa parte della comunicazione non verbale. In quest'ambito si interpretano, varie caratteristiche, ai fini dell'interazione sociale, postura, gesti, movimenti, espressioni e mimica che accompagnano o meno la parola rendendo la comunicazione umana più marcata, ancora più chiara e comunicativa. Attraverso il linguaggio del corpo si riesce a conoscere l'individuo nella sua interezza ed interiorità, sia che si usino o meno alcuni gesti o che si compiano determinati movimenti. La mimica, in generale, rivela i pensieri e le intuizioni altrui più delle parole.

Cinesica

La cinesica è lo studio della comunicazione non verbale, o paralinguistica, e, soprattutto, di quella che si attua attraverso i movimenti, i gesti, le posizioni, la mimica del corpo, in modo volontario o involontario. Fa particolare riferimento ai codici comunicativi antropologici, culturali o artificiali, quali i gesti di cortesia o di disprezzo, la gestualità nelle varie tradizioni teatrali, la gestualità oratoria, il mimo, il linguaggio gestuale muto dei monaci di clausura, dei sordomuti, degli zingari ecc., le modalità del bere e del mangiare, l’etichetta e così via.

Prossemica
Parte della semiologia che studia il significato assunto, nel comportamento sociale dell’uomo, dalla distanza che l’individuo frappone tra sé e gli altri e tra sé e gli oggetti, e quindi, più in generale, il valore attribuito da gruppi sociali, diversi culturalmente o storicamente, al modo di porsi nello spazio e al modo di organizzarlo. Uno spazio fisico o sociale, può essere vissuto in modi differenti sia che si tratti, per esempio, di uno spazio fisico, angusto e accidentato, oppure esteso e facilmente occupabile, sia che si tratti di uno ‘spazio’ all’interno di un partito politico, di una entità di lavoro, della famiglia, del gruppo di vicinato, e così via. Nell’ambito della famiglia, per es., fenomeni quali l’espansione affettiva, l’isolamento, la promiscuità dei sessi e delle generazioni sono strettamente dipendenti dall’organizzazione e dall’occupazione degli spazi interni. Lo stesso vale per la formazione di gruppi di vicinato negli agglomerati urbani, dove, per quanto gli spazi siano notoriamente piccoli, si assiste a una scarsa formazione di interazione, in quanto vengono a mancare le occasioni di incontro tra gli inquilini. La sociologia stessa può essere definita una p. generale. L'analisi di una società, infatti, può essere limitata, senza che perda tuttavia rilevanza sociologica, allo studio della distribuzione della popolazione sullo spazio fisico, alle trasformazioni impresse al territorio, alle forme di insediamento e così via.

Ornamento del corpo
Per ornamento , si intende tutto ciò che si aggiunge per conferire bellezza, eleganza, e quindi, in genere, ogni elemento decorativo.
Nell’antropologia, tutti i gruppi umani fanno grande uso di o. personali di ogni tipo: collane, bracciali per braccia e gambe, orecchini, o. per il capo, fatti di semi, piume, conchiglie, osso o avorio, perle, metalli ecc. Oltre all’uso di simili oggetti e materiali, in tutte le culture il primo elementare supporto per forme di o. personale è il corpo, sottoposto a manipolazioni di carattere estetico e simbolico. Si va dalle molteplici forme di acconciatura dei capelli alle diverse possibilità di operare fori (perforazione labiale, nasale o dei lobi) in cui applicare oggetti decorativi, fino a modificare parti del corpo (la possibilità di modellare il cranio, praticata da popolazioni maya, o la pratica di deformare i piedi delle donne, di alcune aree cinesi). Molto diffusi, specie in occasioni cerimoniali, sono poi la pittura del corpo, le scarificazioni e il tatuaggio.

domenica 26 maggio 2019

Costruttivismo e memoria

Costruttivismo e memoria


Costruttivismo

In psicologia e in psicologia clinica il costruttivismo è un approccio derivante da una concezione della conoscenza come costruzione dell'esperienza personale anziché come rispecchiamento o rappresentazione di una realtà indipendente.
Nell'ambito della matrice epistemologica costruttivista, viene messa in discussione la possibilità di una conoscenza "oggettiva", in quanto sapere totale che rappresenti, in modo fedele, un ordine esterno indipendente dall'osservatore; la stessa osservazione diretta dei fenomeni non è più considerata fonte privilegiata di conoscenza obiettiva.
Le prime dirette conseguenze riguardano l'impossibilità di una distinzione netta tra colui che osserva e chi è osservato, perché entrambi si definiscono come tali attraverso la reciproca interazione. Ciò che viene osservato non sono cose, proprietà o relazioni di un mondo che esiste indipendentemente dall'osservatore, bensì delle distinzioni effettuate dall'osservatore stesso, in seguito alla propria attività nell'ambiente.
Spesso, questo approccio che si contrappone certamente ad una visione positivistica della scienza, viene considerato come una minaccia per la razionalità e per la scienza intesa come visione "unica" della realtà e della verità. Ma, come si è già affermato, può essere considerato congruente con i più recenti sviluppi dell'epistemologia, anche di quelli solitamente accettati dagli stessi scienziati naturali


Memoria

Ricordare, memorizzare, rimembrare, rammentare… sono tanti i termini sinonimi che nella nostra bella lingua ci parlano di memoria. Una memoria “senza fine”, quale quella umana, che non smette mai, neppure un attimo prima di spegnersi definitivamente, di lavorare. Possiamo immaginare il nostro cervello come una sorta di enorme archivio, che non diventa mai troppo piccolo. Per quante cose continuiamo ad apprendere nella vita, per quante esperienze viviamo direttamente o di cui sentiamo parlare, per quanti libri leggeremo o persone conosceremo, ci sarà sempre uno spazio per tutto. Ma come funziona questo strumento straordinario situato nella nostra testa, che assorbe tutto ciò che ci proviene dal mondo esterno, elaborandolo dentro di noi, e lo cataloga in modo certosino tanto che facilmente adoperiamo, per descriverlo, la metafora dei “cassetti”? Ebbene, in modo schematico possiamo iniziare dicendo che la memoria umana è “trina”. Tre sono le memorie che dipendono da altrettante aree del cervello. Vediamole.

Memoria di lavoro. Ritiene le informazioni che servono per uno scopo preciso, ad esempio delle istruzioni, che poi andranno in automatico, tra cui andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale, legarsi le scarpe. La memoria di lavoro è gestita dal cervelletto

Memoria a breve termine. Ritiene poche informazioni per un periodo di tempo limitato, circa un minuto, senza che tale informazione venga elaborata in alcun modo. Questa memoria, controllata dalla porzione prefrontale del cervello, è “volatile” per natura, a meno che noi non decidiamo di attribuire valore e importanza a quella nuova informazione “fissandola” nella memoria a lungo termine. Un esempio tipico della memoria a breve termine? Il nome di qualcuno quando ci viene presentato. La maggior parte delle persone non presta attenzione – a meno che non vi sia un interesse specifico – a questa informazione, e così dopo un po’ l’abbiamo bella e che dimenticata.

Memoria a lungo termine. Ecco la memoria “vera”, quella che dura nel tempo e che struttura i ricordi. Essa viene processata nell’ippocampo del lobo temporale, e si attiva, naturalmente, quando noi intendiamo memorizzare qualcosa in modo volontario. Ha una capacità praticamente illimitata e una “durata” ugualmente senza fine. La memoria a lungo termine conserva concetti così come immagini, e fatti, vissuti in prima persone o letti, visti, ascoltati.

La memoria umana viene spesso, proprio come il cervello tout court, paragonata ad un muscolo da allenare, e in effetti è proprio così. Nel paragrafo conclusivo scopriremo in quali modi è possibile potenziale le nostre capacità cognitive e mnemoniche, ma intanto una precisazione che a volte tendiamo a scordare, per restare nel campo semantico della memoria: il nostro modo di ricordare è selettivo. Ciò significa che sebbene in teoria il nostro archivio mnemonico sia immenso, in realtà i nostri ricordi, quelli che ci girano in testa, sono molto pochi, perché tendiamo a rinforzare solo le informazioni che ci servono o su cui ci interessa focalizzarci. Per questa ragione è molto facile ragionare per stereotipi, anche se siamo le persone più democratiche del mondo. Uno stereotipo è una semplificazione che si basa su pochi dati usati per descrivere un singolo soggetto, poi estesi all’intero gruppo di appartenenza in modo rigido e così diffusi e tramandati “a memoria” d’uomo. Ne abbiamo in mente tutti almeno uno. Lo stereotipo ci serve per immagazzinare un’informazione facile su qualcosa che non abbiamo conosciuto direttamente, e può essere positivo, per esempio, i tedeschi sono precisi e affidabili, o, più facilmente, negativo, per esempio, gli italiani sono tutti mafiosi. Quando memorizziamo uno stereotipo, di solito non ce ne accorgiamo, lo facciamo solo per praticità, per avere una “scheda” in archivio su un argomento di cui sappiamo poco, o nulla. Tutti siamo vittime di stereotipi: perché farci un’idea diretta, elaborata, complessa su qualunque cosa o persona è impossibile. Una volta memorizzato lo stereotipo è difficile da estirpare, proprio perché ormai archiviato e dato per buono, non ci verrà in mente di decostruirlo, di metterlo in discussione e sostituirlo, anche quando ormai siamo perfettamente in grado di farlo.

Il falso ricordo, confabulazione, o false memorieo confabulation, nella tradizione di studi americana, è un ricordo non autentico, o perché del tutto inventato, o perché derivante da altri ricordi reali, ma in parte alterati. Un falso ricordo può crearsi anche per aggregazione: da varie memorie distinte possono essere estrapolati frammenti che nella mente umana vengono ricombinati insieme.
La memoria umana non funziona come una videocassetta il cui nastro può essere riavvolto e rivisto, consentendo ad ogni visione di rivivere gli eventi sempre nello stesso ordine. Al contrario, i ricordi sono soggetti ad una ricostruzione continua ogni qualvolta vengono richiamati in memoria, cosicché diversi elementi della traccia mnemonica possono essere modificati, aggiunti o eliminati dopo ogni nuova rievocazione

L’oblio ed il deterioramento della memoria

L'oblio rappresenta la dimenticanza intesa come fenomeno non temporaneo, non dovuto a distrazione o perdita temporanea di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione del ricordo con un particolare accento sullo stato di abbandono del pensiero e del sentimento.
L’ oblio è l’incapacità di riprodurre e ricordare i contenuti appresi e, nella tradizionale interpretazione della psicologia generale, esso è il frutto di un progressivo indebolimento dei depositi mnesici.
Nella teoria psicanalitica, invece, l’oblio è concepito come il risultato di un processo difensivo di rimozione contro l’emergere di contenuti mnemonici sgraditi; difatti, Sigmund Freud identifica l'oblio come una delle facoltà difensive della mente umana che tende a rimuovere contenuti e pensieri ritenuti minacciosi, i quali rimangono inconsci e repressi.

L’ oblio rappresenta la dimenticanza intesa come fenomeno non temporaneo, non dovuto a distrazione o perdita momentanea di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione del ricordo con un particolare accento sullo stato di abbandono del pensiero e del sentimento.
La prima ricerca sull’oblio è stata condotta dallo studioso tedesco Ebbinghaus che, usando se stesso come soggetto dell’esperimento, apprese un numero sterminato di liste di sillabe senza significato, per verificare quante ne avrebbe dimenticate col passare del tempo. Dimostrò che, quando si apprendono sillabe senza senso, l’oblio passa da una condizione molto rapida ad una molto più lenta, intuendo che la sua funzione fosse approssimativamente logaritmica.
 Tuttavia, quando si passa da studi di laboratorio a studi naturalistici, la situazione che emerge è molto più ottimistica: si è trovato, ad esempio, che si dimentica ben poco del vocabolario e della grammatica di una lingua straniera e che si ricordano abbastanza bene facce e nomi. Appare quindi evidente che il ricordo percorre strade molto individuali.

Nella memoria umana la perdita dell'informazione che caratterizza l’oblio, può avvenire in uno qualsiasi dei diversi processi di memorizzazione: codifica, ritenzione e recupero, e diversi sono i fattori che possono determinarlo, primo fra questi il trascorrere del tempo. Molto importante è anche il ruolo dell'attenzione: se infatti non ne prestiamo abbastanza nel momento di codifica dell'informazione, sarà più difficile in seguito recuperarla.
Anche i fattori emotivi possono interferire con la memoria: è stato provato, per esempio, come l'ansia determini una stimolazione distraente che indebolisce la capacità di ricordare; a tal proposito, Freud ha enfatizzato l’importanza dei suddetti fattori in quanto avvenimenti avvertiti come minacciosi, o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza.

Sono significative inoltre le interferenze di altri ricordi; l’interferenza può essere proattiva, se ciò che dobbiamo memorizzare viene ostacolato da ricordi o eventi simili precedenti, oppure retroattiva se l'informazione nuova ostacola la ritenzione di ciò che era già stato memorizzato.

L'oblio può avere anche cause organiche come traumi cranici o danni cerebrali; la malattia più nota che riduce la capacità di memoria, soprattutto nelle persone anziane, è il morbo di Alzheimer. Siamo però consapevoli del fatto che, a prescindere da malattie cerebrali degenerative, col passare del tempo la memoria sbiadisce e, nell’esperienza quotidiana, non si può fare a meno di constatare come, a volte, la memoria non sia efficace. L’insuccesso può essere temporaneo o definitivo, dimenticando completamente oppure ricordando, in maniera confusa e del tutto insoddisfacente, concetti che erano stati studiati a fondo con dispendio di tempo.
patologie della memoria
L'amnesia indica la perdita o diminuzione notevole della memoria e può essere estesa a tutti i ricordi o parziale, transitoria o stabile, anterograda o retrograda.
L’
amnesia indica la perdita o diminuzione notevole della memoria, sia generale, estesa cioè a tutti i ricordi, sia parziale, limitata a determinati ricordi, nomi; nel linguaggio medico si distinguono: l’amnesia lacunare, che colpisce isolatamente gruppi di ricordi; l’amnesia retrograda, che inibisce la rievocazione di ricordi precedenti l’avvenimento che l’ha causata; l’amnesia anterograda, che provoca l’incapacità di ricordare fatti successivi all’evento vissuto.

Si può parlare di depressione in senso clinico quando sono presenti sintomi consistenti in un abbassamento del tono dell'umore: il depresso sente sé stesso, la propria vita, la realtà circostante in maniera spiacevole e dolorosa. Sono presenti sentimenti di tristezza, di abbattimento, di pessimismo e di dolore.



biblioteca di babele di Borges

L'universo, che altri chiama la Biblioteca, si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d'una biblioteca normale. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l'altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che si inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita, io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito... La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una traversa. La luce che emettono è insufficiente, incessante.a

Comportamentismo

Comportamentismo

Introspezione

L' introspezione è l’osservazione dei fatti di coscienza, compiuta dal soggetto mediante la registrazione autonoma delle proprie esperienze.

Un importante sociologo, fisiologo e filosofo che osservò questo fenomeno, era Wilhelm Maximilian Wundt. Wundt è stato, per l’appunto, uno psicologo, fisiologo e filosofo tedesco ed è divenuto per la storia della psicologia "il padre fondatore" della disciplina, grazie al suo contributo teorico e sperimentale.

Un altro importantissimo psicologo, era, come già stato nominato in precedenza, Ivan Petrovič Pavlovè stato un fisiologo ed etologorusso, il cui nome è legato alla scoperta sui cani del riflesso condizionato, da lui annunciata nel 1903.

Watson fu il fondatore del behaviorismo americano.

Col tempo, si è tracciata una distinzione tra behaviorismo:
- metodologico: ignora la "coscienza" e sostiene lo studio oggettivo del comportamento 
- dogmatico: nega affatto la coscienza, è perciò una forma di materialismo metafisico.


Pavlov, invece, è un esponente del ‘900 e la sua tesi caratteristica è quella del riflesso condizionato
Egli era un fisico, non uno psicologo, e stava conducendo degli studi sul corpo. In particolare, egli voleva sapere quali fossero gli elementi costitutivi del succo gastrico
Utilizzò come cavia un cane; inserì nella cavità nasale dell’animale un sondino che gli permetteva di prelevare quanto usciva dallo stomaco. 

Si trovò di fronte ad un problema: se il cane era digiuno, dal sondino non usciva nulla, se il cane aveva mangiato, dal sondino usciva del succo gastrico, ma accompagnato dal cibo. 
Ebbe allora, l’idea di incidere il ventre dell’animale e legare l’ultimo tratto dello stomaco con uno spago. Qui inserì il sondino e notò che nel momento in cui si avvicinava all’animale per farlo mangiare, usciva del succo gastrico, ma notò anche che l’animale iniziava a salivare
Abbandonò allora lo studio del succo gastrico per dedicarsi alla salivazione
Incise la ghiandola salivare del cane, infilò il sondino e notò che non appena si avvicinava per dargli il cibo, la saliva iniziava a fuoriuscire. Giunse alla conclusione che ad uno stimolo naturale, il cibo, corrisponde una risposta naturale, la salivazione.

Padre del condizionamento operante, invece, è stato Frederic Skinner. Burrhus Frederic Skinner è stato uno psicologo statunitense altamente influente nell'ambito del Comportamentismo. Fu anche scrittore, inventore, sostenitore di riforme sociali e poeta.
è stato uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo, incidendo un grande capitolo nella teoria psicologica e nell'applicazione clinica. Famosissimi i suoi esperimenti, tra cui la Skinner box, che gli permisero di formulare le leggi sul condizionamento operante, uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo nell’ambito del comportamentismo. Il suo principale interesse fu comprendere come il comportamento umano vari in relazione alle diverse modificazioni ambientali. Per questo divenne il padre del paradigma del condizionamento operante.
È stato professore di Psicologia alla cattedra "Edgar Pierce" dell'Università di Harvard dal 1958 sino al 1974, anno in cui andò in pensione.
Fondò la tradizione di ricerca psicologica dell'"analisi sperimentale del comportamento", in cui definì e articolò metodologicamente la frequenza di presentazione dei comportamenti manifesti come variabile dipendente nella ricerca psicologica, sviluppando così i contributi teorici e sperimentali precedenti del Comportamentismo classico di John Watson con particolare attenzione al "Condizionamento Operante".
Nel corso degli anni sviluppò il proprio punto di vista in relazione alla filosofia della scienza, noto come comportamentismo radicale. La sua analisi teorica del comportamento umano culminò con il lavoro interpretativo "Verbal Behaviour", nel 1957, focalizzato sul comportamento linguistico; il modello skinneriano di apprendimento è stato fortemente criticato da Noam Chomsky. In Verbal Behaviour Skinner espose dettagliatamente la metodologia basica sperimentale che condusse alle sue scoperte, che chiamò l’analisi sperimentale del comportamento. In seguito alle applicazioni di questa scienza dell’educazione, e degli altri argomenti inerenti al comportamento sociale, dall’analisi del comportamento, si arrivò a quello che ora è conosciuto come analisi comportamentale applicata.
Tra le innovazioni metodologiche che propose, inventò la camera di condizionamento operante, nota anche come "Skinner Box", e il Cumulative Recorder, uno strumento utilizzato per misurare la frequenza dei comportamenti durante la sua ricerca, ritenuta fondamentale in psicologia sperimentale e applicata, sulle "Schede di Rinforzo".
In un sondaggio del 2002 Skinner è stato giudicato il più influente psicologo del ventesimo secolo.


l'apprendimento secondo il comportamentismo
Il "comportamentismo" è la scuola che si è molto diffusa negli USA, dagli anni '20 ai '70, che mette da parte i concetti come "io" e "coscienza" e circoscrive la psicologia sia animale sia umana allo studio del comportamento. 
Questo modello prende in considerazione solo gli aspetti osservabili della psiche, ossia i comportamenti e trascurano gli aspetti introspettivi che sfuggono all’osservatore.
Al contrario di Wundt, Pavlov e Watson sostenevano che lo studio della coscienza era troppo legato alle impressioni soggettive e pertanto non verificabile.

Si sviluppò il comportamentismo.
Acquista importanza l’apprendimento che può essere:
o  ClassicoPavlov
o  operante,di Skinner: si poteva produrre l’apprendimento usando i rinforzi che possono essere negativi o positivi
Inoltre, per l’apprendimento ha notevole importanza l’apprendimento sociale, ossia l’imitazione.
Il modello comportamentista si propone come una branca, oggettiva e sperimentale, delle scienze naturali. 
Esige di offrire la probabilità di raggiungere la spiegazione dei fenomeni psichici di ogni organismo animale, a condizione di togliere ogni cenno a concetti o "entità" non suscettibili di prova sperimentale. 
Pretende di lasciare ogni richiamo introspezionistico o mentalistico, di cercare chiarimenti solo sui materiali di fatto osservabili e in linea di principio stimabili, al punto che si potesse realizzare lo scopo principale della psicologia stessa: la previsione e il controllo del comportamento. 
Sotto tale aspetto, è evidente come pensiero e sentimento fossero interpretati, essi stessi, come comportamento implicito: il primo è un discorso implicito o sublocale; il secondo si riduce a reazioni viscerali implicite.

Il modello comportamentista ha dato due esiti fondamentali:
- teorie della "contiguità", ovvero di stimolo e risposta (Watson e Guthrie)
- teorie del "rinforzo" (Thorndike, Skinner, N. Miller)
Solo successivamente, grazie agli studi di Tolman, Hull e Osgood, si avrà un’apertura anche agli aspetti simbolici e cognitivi e verrà reintrodotta la separazione, seppur cauta, tra realtà fisica e intellettuale.


John Broadus Watson è stato uno psicologo statunitense, padre del comportamentismo.
Scoppiato uno scandalo nel 1920 per via della relazione che aveva intrapreso con una propria studentessa nonché collaboratrice di venti anni più giovane di lui, fu costretto a dimettersi da professore universitario; in seguito, venne ingaggiato come vicepresidente di una agenzia pubblicitaria.

l'apprendimento del linguaggio e la crisi del paradigma comportamentista

È facile notare con quanta facilità i bambini apprendano il linguaggio, senza ricevere, se non saltuariamente, insegnamenti specifici e diretti da parte degli adulti. Questo è dovuto al fatto che essi nascono già con forti predisposizioni, a livello di percezione di suoni e stimoli e di capacità interattive, volte a favorire l'apprendimento del linguaggio. Ad esempio, i neonati sono particolarmente sensibili alla voce della madre, e, più in generale, tendono ad orientare testa e sguardi verso fonti da cui proviene la voce umana. A tre mesisono già in grado di riconoscere la voce dei genitori e distinguere fonemi differenti. Infatti, i bambini imparano prestissimo a distinguere i suoni che appartengono alla loro lingua e suoni “non linguistici”, apprendono che le cose hanno dei nomi, così come le persone, e, soprattutto, comprendono l'esistenza di un'intenzione comunicativa, apprendono cioè come il linguaggio sia utilizzato per comunicare qualcosa. Tali abilità sono alla base della competenzacomunicativo-linguistica dei bambini.
I bambini dunque dimostrano una notevole competenza innata nella percezione del linguaggio, ma alla nascita si trovano invece svantaggiati per quanto riguarda la possibilità di produrre suoni linguistici: infatti l'apparato vocale dei neonati non è strutturato in modo da poter emettere tali suoni. È solamente dopo i quattro mesi che il bambino inizia a produrre le cosiddette lallazioni, suoni molto semplici, dati dall'associazione consonante-vocale, che saranno poi seguite dal gergo espressivo, meno ripetitivo rispetto alle lallazioni e caratterizzato da intonazioni che rispecchiano quelle del linguaggio adulto. Si passa poi alle prime parole.
Naturalmente prima di poter imparare e quindi riprodurre una parola il bimbo deve essere in grado di riconoscerla e associarla correttamente al suo significato. Questa operazione è facilitata dall'atteggiamento verbale che spontaneamente gli adulti assumono quando parlano con dei bambini piccoli, si parla lentamente, usando frasi brevi e semplici, con molte domande, separando molto distintamente le parole tra loro, questa modalità linguistica, volta appunto a facilitare il compito dei bambini di riconoscere le singole parole all'interno della frase, comune a tutte le lingue e a tutte le culture, si chiama maternese.
Quando i bambini iniziano effettivamente a utilizzare le parole queste assumono il significato di un'intera frase, e vengono pertanto chiamate olofrasi. Con il termine olofrase si intende dunque un'espressione tipica del linguaggio infantile formata da una sola parola che vuole significare concetti, detta protodichiarativa, o richieste, detta protorichiestiva,che un adulto esprimerebbe con una frase più o meno complessa; di conseguenza a seconda dell'intonazione, delle circostanze e della gestualità che l'accompagna, una stessa parola può assumere significati diversi.

A partire dall’inizio degli anni ’60, all’interno del movimento comportamentista, cominciarono a svilupparsi nuove tendenze che iniziarono ad occuparsi della mente e dei processi che ne scandiscono l’attività. Rientrano tra i protagonisti di questo spostamento graduale dal comportamentismo al cognitivismo Clark L. Hull e Edward C. Tolman.
Il modello di Hull
Il modello di apprendimento elaborato da Hull si caratterizza per una strutturazione ipotetico-deduttiva che ha lo scopo di sistematizzare la psicologia proprio come lo sono la matematica e la logica formale contemporanee, sulla falsariga dei Principia Mathematica di Whitehead e Russell. Hull definì infatti la sua teoria come matematica-deduttiva, per indicare non solo che essa utilizza il metodo ipotetico-deduttivo, ma soprattutto che tale metodo viene utilizzato in maniera rigorosamente quantitativa. Il metodo è infatti di tipo formale e, partendo da principi indefiniti e definizioni, si sviluppa poi in postulati, corollari, teoremi e problemi. I postulati vengono enunciati prima in forma verbale, poi in notazione logica simbolica formale e infine spiegati e corroborati da esempi sperimentali. I teoremi sono enunciati, poi dimostrati per derivazione matematica da definizioni e postulati, poi sottoposti, quando è possibile, a test sperimentale.
Apprendimento latente
L’opera di Tolman è paradigmatica invece del passaggio da concezioni di tipo comportamentista a idee cognitiviste.
Tolman introdusse difatti all’interno del paradigma comportamentista il concetto di apprendimento latente, espressione che lo studioso esplicitò per la prima volta nel suo articolo del 1930 Introduction and removal of reward, and maze performance in rats.
L’apprendimento latente intendeva mettere in crisi il concetto di uguaglianza fra prestazione e apprendimento presa a principio dai comportamentisti precedenti. Tolman condusse infatti alcuni esperimenti su tre gruppi di topi all’interno di un labirinto. Il primo gruppo riceveva del cibo come rinforzo, il secondo gruppo invece non riceveva alcun tipo di rinforzo, mentre il terzo riceveva un rinforzo solo a partire dal dodicesimo giorno di prove. Lo studioso si rese conto che i topi del secondo gruppo, quelli senza rinforzo, non imparavano mai a completare il labirinto, mentre i topi del primo gruppo, con rinforzo immediato, e del terzo gruppo, quelli a rinforzo posticipato, riuscivano a percorrere interamente il labirinto non manifestando differenze di prestazioni. Tolman giunse pertanto alla conclusione che i topi apprendevano anche in mancanza di rinforzo, ma tale apprendimento si manifestava in una prestazione corretta solo ed esclusivamente in presenza del rinforzo stesso, altrimenti non si sarebbe verificata l’uguaglianza di prestazione tra i topi a rinforzo immediato e i topi a
rinforzo differito di alcuni giorni.
Nel sistema di Tolman dunque l’apprendimento non si risolve in una semplice associazione di tipo stimolo-risposta, ma si configura in termini di raggiungimento di una meta, o oggetto-meta, di una serie
d’impulsi esplorativi iniziali, impulsi cognitivi iniziali, edell’acquisizione di una serie di adattamenti conclusivi all’oggetto, cognizioni finali.
Introducendo i concetti di “scopi”, “aspettative”, “mappa cognitiva”, Tolman si discosta evidentemente dalla maggior parte del comportamentismo precedente aprendosi a concetti sempre più di stampo cognitivista che ritroveremo, anche se in forme diverse, nella psicologia della Gestalt. Del comportamentismo rimane comunque nel sistema di Tolman la metodologia e il punto di partenza, ovvero il comportamento osservabile.
Per "stile cognitivo" si intendono le differenze individuali durature ed interamente coerenti nell'organizzazione e nel funzionamento cognitivo. Il termine si riferisce  sia alle differenze individuali nei principi generali dell'organizzazione cognitiva, agli aspetti della semplificazione  e della coerenza, sia alle varie tendenze soggettive,  internamente coerenti, quali l'intolleranza all'ambiguità,  la memoria per un particolare tipo di esperienze che non  si riferiscono al funzionamento cognitivo umano generale. Riflette differenze di personalità e differenze genetiche ed esperienziali nelle capacità e nel funzionamento  cognitivo; e, di fatto, opera una mediazione tra motivazione ed emozione, da un lato, e cognizione, dall'altro. Tuttavia, una seria carenza metodologica,  comune a molte ricerche in questo campo, è il fatto che  la generalità di funzione, all'interno del compito e tra i  compiti, delle misure che usano per lo stile cognitivo, le  sue determinanti e le sue conseguenze funzionali, non è  stata adeguatamente individuata. E' da discutere, quindi, se queste misure siano davvero indicative di tratti  cognitivi stabili e generalizzati.
Molte variabili dello stile cognitivo riflettono differenze  individuali rispetto a talune proprietà o caratteristiche  generali dell'organizzazione e del funzionamento cognitivo che caratterizzano gli esseri umani, quali l'immagazzinamento delle informazioni e i vari processi. Tali tendenze si verificano lungo le stesse linee e si applicano a  tutti gli individui a tutte le età, ma in particolari persone  sono marcatamente più o meno accentuate. Tra le varie caratteristiche generali dell'organizzazione e del funzionamento cognitivo, già considerato in questo volume,  sono:
a. la tendenza a seguire il principio della differenziazione  progressiva, nell'acquisizione che il discente fa di settori  conoscitivi completamente nuovi, o di nuove componenti di settori già familiari,
b. la tendenza al riduzionismo o alla semplificazione, allo  scopo di alleggerire il peso delle cose da conoscere, che  si manifesta nei processi di astrazione, formazione di  concetti, categorizzazione, generalizzazione e assimilazione obliterativa;
c. la tendenza a raggiungere una maggiore coerenza interna o congruenza di significato con la struttura cognitiva, attraverso la dimenticanza selettiva o il fraintendimento selettivo di nuove idee non familiari o contrastanti con i contenuti già presenti nella struttura cognitiva.
Con l'espressione stile cognitivo, peraltro usata spesso genericamente e in maniera tutt'altro che univoca, si intende una modalità di elaborazione dell'informazione che si manifesta in compiti diversi e addirittura in settori diversi del comportamento. Come il termine stile suggerisce, si tratta di caratteristiche cognitive che sono globali, o perlomeno diffuse, nel senso che si rilevano non solo nel funzionamento cognitivo dell'individuo, ma anche nei suoi atteggiamenti, nei modi di rapportarsi agli altri o di reagire a situazioni inconsuete, e così via: così, si parla di stile dipendente o indipendente dal campo, riflessivo o impulsivo, convergente o divergente, ecc., con una varietà di denominazioni che non contribuisce certo a una concettualizzazione unitaria.